Vivere l'inizio di un inizio.
Oltre l'Aut-Aut kierkegaardiano.

Riflessioni intorno all'orientamento formativo a scuola.


In questi giorni, ho letto e riletto più volte un articolo dal titolo Aut-Aut. Orientare o orientarsi? pubblicato sul blog di didattica e ricerca letteraria laletteraturaenoi.it. Nel contributo sono mosse alcune critiche verso le modalità di attuazione delle attività di orientamento. Da un punto di vista linguistico e pedagogico, la parola attività – abusata nella progettazione didattica – è imprecisa e opaca. L’attività di per sé è un semplice fare. La didattica, invece, dovrebbe costruire contesti esperienziali. E sappiamo che l’esperienza è tale quando essa è rielaborata dal soggetto, in modo autonomo o guidato. Uno dei punti nevralgici è già insito nell’affermare che la scuola proponga attività di orientamento. Sbagliato. La scuola dovrebbe costruire un curriculum, un progetto (il più possibile verticale) di orientamento.

Tra le critiche mosse verso il modello di orientamento in atto possiamo individuare, in modo sintetico, le seguenti:


L’alternativa promossa è quella che – provocatoriamente – potremmo definire il “ma lo facciamo già”: le discipline sono esse stesse orientative, da sempre e per sempre. Sul fatto che le discipline siano orientative nessun dubbio, ma torneremo più avanti a comprendere in che modo possono esserlo. A sostegno di questa tesi, si porta ad esempio il fatto che le lezioni su Kierkegaard avrebbero, quasi necessariamente, portato ragazzi e ragazze a riflettere sulla scelta, aspetto nevralgico nell’orientamento. Invece, le “attività” proposte dal team dell’Università di Padova, che da anni tiene uno dei corsi di perfezionamento più significativi nel panorama nazionale sull'orientamento, non hanno permesso il regolare svolgimento di quanto programmato. Ciò che poi dispiace è la completa assenza di una puntuale riflessione teorica, pedagogica e didattica su che cosa sia l’orientamento, quali i suoi obiettivi quali i suoi fini.

Verso la conclusione, si legge quanto segue.

E ancora, mi preoccupa che non sia emersa con forza – nei luoghi in cui sarebbe dovuta emergere e cioè Collegio Docenti, Dipartimenti, Consigli di Classe) – l’opzione che soggiace a tutta questa faccenda: orientare oppure orientarsi? L’opzione non è burocratica o amministrativa, è esistenziale. Un corpo inanimato viene orientato (una bussola, la prua di una nave…), ma un ragazzo ha il diritto di sviluppare la capacità di orientarsi da sé. Come potrà farlo se, nel periodo delicato della crescita, avrà sempre adulti che gli ronzano intorno (in buona fede, per carità)? Adulti che lo facilitano, lo supportano, lo sostengono… adulti che riempiono quello spazio vuoto (rischioso quanto prezioso) indispensabile per fiutare la propria strada. Sbagliando, deragliando, perdendo un po’ di tempo si guadagnerà in autonomia, in consapevolezza. “Eh, mia cara, ma oggi il mondo è cambiato, è complesso e i ragazzi dobbiamo aiutarli…”, mi sembra di sentirlo l’orientatore 4.0 (in effetti l’ho sentito più e più volte). Oggi il cosiddetto mondo al quale si affacciano i miei studenti sarebbe più complesso di quello che un diciottenne affrontava nel settembre del 1943 oppure nel giugno 1973? E perché i miei studenti sarebbero particolarmente bisognosi delle nostre proposte orientative per cavarsela? Certo, forse qualcuno, lungo la strada, potrebbe avere bisogno di un aiuto particolare e sarà importante poterlo assicurare, ma perché offrire a tutti, indiscriminatamente, ogni tipo di supporto anche quando, nella maggioranza dei casi, questo bisogno non c’è? Io sono convinta che i miei studenti abbiano tutte le risorse e le capacità per poter imparare ad orientarsi da sé.

Ci sono almeno tre punti su cui è necessario riflettere.

Il primo. Quale idea di orientamento emerge dalle Linee guida sull’orientamento? Il contributo sembra individuare radici neoliberiste nel modello di orientamento proposto. Timore lecito, lecitissimo se pensiamo allo sviluppo politico e normativo della scuola negli ultimi decenni. Tuttavia, le Linee guida appaiono chiare sui riferimenti concettuali. Si legge infatti, al paragrafo 1.4, che «la letteratura scientifica sull’orientamento scolastico [ndr, sarebbe stato preferibile “formativo”, come al paragrafo 7.1] è concorde nel dichiarare conclusa la stagione che ha visto interventi affidati a iniziative episodiche. Serve un sistema strutturato e coordinato di interventi che, a partire dal riconoscimento dei talenti, delle attitudini, delle inclinazioni e del merito degli studenti, li accompagni in maniera sempre più personalizzata a elaborare in modo critico e proattivo un loro progetto di vita, anche professionale». Il modello di riferimento sembra chiaramente quello dell’orientamento come life design (Saviskas, 2012), che, come scrive Batini, tanto ha di somigliante con il modello italiano dell’orientamento narrativo (Batini, 2015). Il ruolo degli studenti è attivo perché l’elaborazione è propria di ogni ragazzo o ragazza. La letteratura scientifica sull’orientamento a cui si fa riferimento dice espressamente che fine dell’orientamento è orientare a orientarsi, e non orientare e basta. Compito delle famose trenta ore è dunque quello di «aiutare gli studenti a fare sintesi unitari, riflessiva e interdisciplinare della loro esperienza scolastica e formativa, in vista della costruzione in itinere del proprio progetto di vita culturale e professionale, per sua natura sempre in evoluzione». Ciò è possibile valorizzando non solo le discipline ma anche l’idea di «orientamento come processo condiviso, reticolare, coprogettato con il territorio».

Il secondo. Davvero le vite, le esistenze dei nostri ragazzi e delle nostre ragazze possono essere paragonate a quelle di un diciottenne nel 1943 o del 1973? No. Questo penso possa essere l’errore più grave di valutazione. Il contesto sociale, culturale, economico e politico agisce secondo trame tanto invisibili quanto incisive sulle vite di ciascuno di noi. Il mondo di oggi è un mondo completamente diverso da quello del ’43, del ’73 o del ’95. Edgar Morin nei suoi contributi lo spiega in modo puntuale, approfondito, critico. La frase con cui conclude le sue 7 lezioni sul pensiero globale è insieme sintetica ed esaustiva: Viviamo l’inizio di un inizio. Siamo di fronte a un cambiamento epocale. Sempre uomini, ma davanti a una nuova era. Per descrivere il contesto in cui i giovani e le giovani di oggi, ma anche i bambini e le bambine, si trovano a vivere e costruire il loro progetto di vita potremmo usare cinque parole.


Il terzo. Non c’è bisogno di supporto, strutturale e sistemico, nell’educazione alla scelta? Dati, inchieste ed esperienze di tanti orientatori e orientatrici, psicologhe e psicologi, insegnanti dicono tutt’altro. Basti leggere, ad esempio, ciò che emerge dal lavoro di ricerca dell’IRES dal titolo I giovani e il futuro. Un’analisi delle culture giovanili tarentine (Pagano, 2011), in cui la precarietà, la mancanza di modelli di riferimento, la disconnessione scuola/realtà, il ruolo della tecnologia, il modificarsi delle forme di relazione sono tra gli aspetti che più ritornano. Una realtà nuova e diversa da quella del passato, una realtà complessa e reticolare, necessita di strumenti per leggere la mappa, per orientarsi, per muoversi. La mappa del secolo scorso era, per tante ragioni, meno complessa (non diciamo semplice, ma sicuramente diversamente e meno complessa di quella attuale).

La scuola pertanto necessita di un ragionamento strutturale e sistemico sull’orientamento. Le e gli insegnanti (tutti, dalla scuola dell’infanzia sino all’università) debbono approfondire, indagare e acquisire nuove competenze capaci di sostenere e accompagnare studenti e studentesse nello sviluppo di competenze (auto)orientative. Devono non perché la normativa lo richieda, ma devono in virtù di un’etica professionale che chiede loro di rispondere ai bisogni formativi ed educativi, impliciti ed espliciti, di ragazzi e ragazze. Come afferma Antonia Curti, «l’orientamento nei contesti di didattica non si sostanzia tanto dei contenuti che servono a guidare i processi di scelta dei giovani, bensì si compie nel quotidiano, attraversa la qualità dell’insegnamento, i setting didattici e della relazione educativa, tutto quanto i formati costruiscono e agiscono nell’ambito della comunicazione dei saperi, e non solo. L’orientamento riguarda, allora, il formarsi; esso non rinvia a conoscenze che di per sé svolgono la funzione di indicare la strada, bensì attiene a conoscenze ed esperienze di sé per trovare la strada» (Cunti, Priore, 2022).

Didattica orientativa non significa, dunque, parlare di temi che riguardano l’orientamento. Significa proporre esperienze – diverse, plurime, coordinate - che contribuiscano al raggiungimento di quelli che possono essere gli obiettivi educativi e formativi utili allo sviluppo dell’orientare a orientarsi

Obiettivi formativi ed educativi sull'orientamento

elaborati dal prof. Alessio Trevisan nell'a.s. 2023/2024

Nel recente volume Orientarsi nell’orientamento, riprendendo e facendo sintesi tra diversi contributi sull’argomento, si individuano sette caratteristiche portanti della didattica orientativa. Essa (1) è verticale; (2) è capace di stimolare la riflessione su di sé, sul proprio futuro, sui propri progetti e sulle proprie competenze; (3) si fonda su quei nuclei fondanti le discipline maggiormente connessi con la realtà e con le competenze di cittadinanza; (4) è progettata in un contesto di didattica per competenze e realizzata per mezzo di metodologie che mettono al centro la persona; (5) è interdisciplinare; (6) prevede la riflessione sull’esperienza; (7) valorizza e sostiene una valutazione autentica, formativa ed educativa (Guglielmini, Batini, 2023). Aggiungeri un ultimo punto, prendendo spunto da Curti e Priore: l’idea banale quanto innovativa e significativa che l’orientamento possa esprimersi pienamente nella relazione educativa. Infatti, «se l’orientamento consiste principalmente nel creare le condizioni per la costruzione di scelte libere e consapevoli, la scommessa si gioca sulla qualità della relazione che gli adulti (formatori in primis) stabiliscono con i giovani, relazione che abbraccia dimensioni diverse, da quella cognitiva a quella motivazionale a quella affettiva» (Cunti, Priore, 2022). In estrema sintesi: la didattica è orientativa quando progettualmente elaborata, mediata da metodologie i cui fini e mezzi sono in armonia, fondata sulla relazione educativa e inserita in una dimensione ampia e condivisa di educazione alla scelta.

Ne deriva che la didattica orientativa è una – se non la – sfida della scuola di oggi. Una sfida che necessita una risposta plurale e complessa, mettendo in gioco attori diversi coordinati dagli istituti scolastici che, proprio grazie all’orientamento, posso giocare un ruolo fondamentale nei processi formativi ed educativi dei ragazzi e delle ragazze. Formare a formarsi, orientare a orientarsi sono processi che permettono alla scuola di agire in direzione di un’educazione democratica e liberante. Speriamo che la sfida non si traduca in atti burocratici e in format da compilare, ma possa davvero guardare all’orientamento come bene sociale: «L’orientamento come azione intenzionale a finalità educativa persegue le mete dell’autopromozione, della socializzazione e della civilizzazione della persona: “l’uomo, cioè, ha bisogno di esplicarsi in se stesso, inserito nel gruppo e, nascendo senza esperienza di vita e di cultura, di essere elevato alla civiltà”. Nella prospettiva assunta dall’indagine in corso, la natura dell’orientamento come bene sociale è connessa con l’esigenza che questo sia definito personale, integrale, permanente» (Girotti, 2006).

Diceva, appunto, Morin che viviamo l’inizio di un inizio. In questo inizio, il modello dell’Aut-Aut sembra venir meno e la scelta sembra acquisire una nuova ontologia e un nuovo valore esistenziale.


Bibliografia essenziale

Autore - Alessio Trevisan
Insegnante di Scuola secondaria di Primo Grado a Settimo Torinese 


Data di pubblicazione - 05 giugno 2024